Palermo, 6 agosto 1980: l’omicidio annunciato del Procuratore Gaetano Costa

Riceviamo e  pubblichiamo il seguente articolo del dott. S. Immordino, anche apparso sul sito www.volerelaluna.it, al link: https://volerelaluna.it/societa/2024/08/06/palermo-6-agosto-1980-lomicidio-annunciato-del-procuratore-gaetano-costa/  riguardante l’assassinio del Giudice Gaetano Costa, Procuratore Capo di Palermo.

Il Procuratore camminava lento, curiosando tra le bancarelle, attratto da libri in mostra disordinata che, proprio per questo, attivano in un uomo di fine cultura il gusto della ricerca. Le ferie, per lui prossime, richiedevano una provvista robusta di letture per allentare la stanchezza e le tensioni di un lavoro appassionante, ma anche duro e rischioso. Si era avviato un processo di rinnovamento, attivato negli anni ’70 dal Partito Comunista ormai de-sovietizzato e dalla Democrazia Cristiana per portare l’Italia all’approdo di una democrazia compiuta. In questo contesto un’aria pulita cominciava a soffiare sul Paese generando nuovi fermenti che agitavano in positivo le acque torbide nella triste palude che era divenuta Palermo. Uomini coraggiosi come il Procuratore cultore di stand librari erano accorsi in difesa delle istituzioni da troppo tempo in mano a uomini assuefatti a una vita di pigra accondiscendenza o di complicità in torbidi connubi malavitosi. Tra questi solerti servitori dello Stato, Gaetano Costa (è di lui che stiamo parlando), partigiano in gioventù contro la dittatura fascista, si trasferì dalla sua Caltanissetta al palazzo di giustizia di Palermo per ricoprire il ruolo di procuratore capo e per intraprendere una nuova e non meno rischiosa resistenza.

A Palermo lo Stato sembrava volesse risvegliarsi da un lungo torpore istituzionale e aveva piazzato in ruoli chiave della magistratura uomini di grande caratura democratica: Costa procuratore della Repubblica, Rocco Chinnici a capo dell’Ufficio Istruzione del Tribunale (posto a cui non era riuscito ad approdare Cesare Terranova perché “preventivamente” ucciso dalla mafia), con grande scandalo dei benpensanti che urlavano all’instaurazione della “via giudiziaria al socialismo” quando, invece, si trattava di magistrati di estremo rigore professionale, protagonisti dell’affermazione di principi democratici scolpiti nella Costituzione. Costa opera una sterzata alle abitudini della Procura e inizia una lotta serrata all’alta mafia, con indagini che non si erano mai viste che puntano verso i sancta sanctorum della finanza e dei traffici di stupefacenti. Un’attività che gli aliena le simpatie di gran parte dei colleghi, assuefatti a ritmi e usanze che troviamo ben descritte con nomi, cognomi e dovizie di particolari nei diari di Chinnici, il quale, anche lui, sta operando un’analoga rivoluzione nell’Ufficio istruzione dove con felice intuizione, e non senza difficoltà, crea il pool antimafia.

Costa trova una sponda investigativa nel questore Vincenzo Immordino (1), inviato, pochi mesi prima del suo pensionamento, a dirigere la questura di Palermo, dove, a dargli il benvenuto, arriva l’omicidio del presidente della Regione Pier Santi Mattarella. Anche a seguito di questo gravissimo atto, in sintonia con i giudici Chinnici e Falcone, i riflettori investigativi vengono puntati sulle famiglie Gambino, Spatola e Inzerillo e su Gaetano Badalamenti, capomafia di elevatissima pericolosità e “padrone” dell’aeroporto di Punta Raisi. L’uccisione del capitano dei Carabinieri Emanuele Basile anticipa la conclusione della programmata operazione che scatta il 5 maggio 1980. Il questore Immordino segrega funzionari e poliziotti nella Caserma Lungaro, fa staccare i telefoni e ordina che nessuno per nessun motivo lasci il posto di raccolta. L’operazione si porta dietro uno strascico di malumori e polemiche. Per esempio il commissario capo Francesco Federico, oltre a lamentarsi perché non gli è stato neppure consentito di telefonare a casa per gravi motivi familiari, non sottoscrive il rapporto e, successivamente, dichiarerà a verbale di avere cercato di convincere il questore «a non far scattare l’operazione perché […] consideravo quegli arresti prematuri per mancanza di prove certe».

Di ben altra intensità le polemiche scoppiate al palazzo di giustizia. Nell’immediatezza degli arresti, cinque sostituti si riuniscono a casa di uno di loro, il dr. Sciacchitano, per «uno scambio di idee sull’opportunità di procedere alla convalida degli arresti effettuati poche ore prima dalla polizia giudiziaria» (2). Tra essi Francesco Scozzari su cui nel diario del dr. Chinnici leggiamo una lunga serie di appunti che tratteggiano un personaggio inquietante e addirittura indicato dal consigliere istruttore come possibile responsabile di una sua morte violenta. Saputo della riunione, Costa riunisce il 9 maggio nel suo ufficio tutti i sostituti «perché – secondo quanto riferito dalla vedova del magistrato, l’on. Rita Bartoli Costa – pensava che alcuni di essi fossero stati sottoposti a pressioni, segnatamente da parte del dott. Scozzari che aveva grande influenza sui colleghi».Nel corso della riunione i 12 sostituti e l’aggiunto presenti (3), ad eccezione del dott. Geraci, rifiutano di firmare gli ordini di cattura che saranno sottoscritti dal solo Procuratore capo. Un fatto senza precedenti in una Procura di prima linea nel contrasto alla mafia, che, quando si diffonde la notizia, determina all’esterno la sensazione di un isolamento del dr. Costa. Non si accerterà con sicurezza chi sparse la voce della presa di distanza dei sostituti, ma la vedova Costa addebita al dr. Sciacchitano la responsabilità di aver pronunciato davanti ai giornalisti la frase «li firma lui». Il successivo 29 maggio 1980 il questore Vincenzo Immordino viene collocato a riposo per raggiunti limiti di età. Gli succederà un questore iscritto alla P2, tessera n.102. Immordino subirà strumentali accuse giudiziarie da cui, dopo anni, verrà assolto con formula piena.

Poco più di due mesi dopo, il 6 agosto 1980, viene interrotta a colpi di calibro 7.65 la tranquilla passeggiata del procuratore Costa e con essa il risveglio della Procura palermitana. Rimane Rocco Chinnici, che crea il pool antimafia affiancando a Falcone i colleghi Peppino Di Lello, Paolo Borsellino e Leonardo Guarnotta. Si istruiscono processi, anche originati dall’operazione del 5 maggio voluta dal procuratore Costa e dal questore Immordino, che decimeranno il gotha mafioso, smentendo quanti, tra poliziotti e magistrati, erano stati scettici. Ma ancora una volta a duro prezzo: il diario di Chinnici è zeppo di annotazioni, riguardanti ora velati avvertimenti, ora pressanti tentativi di condizionamento o finanche di aperta ostilità provenienti dai vertici del palazzo di giustizia e dell’avvocatura.

I veleni tracimano nel palazzo di giustizia di Palermo per cui il Consiglio Superiore della Magistratura decide di vederci chiaro. Il 13 gennaio del 1982 convoca il dr. Vincenzo Immordino, che ricostruisce così quei giorni di faide e fronde tra investigatori e magistrati: «Quando mi si portò la notizia (della mancata firma dei sostituti, ndr) io rimasi colpito molto perché mi sembrò che crollasse quel principio che avevamo stabilito, di spersonalizzare. […] Il fatto che qualcuno dei procuratori ha detto che ha voluto firmare il Procuratore… noi NO non c’entriamo. Tutto questo mi impressionò non poco». Emerge, nell’audizione del questore, la preoccupazione per l’incolumità personale del procuratore a seguito di questo rifiuto di convalida degli arresti percepito all’esterno come fattore di isolamento. Alla domanda se lo scetticismo di alcuni investigatori della questura fosse riferito a magistrati, Immordino risponde secco: «Sì, alla Procura» e, alla domanda se il dubbio era generico, risponde «No, su fatti specifici» e cita una serie di circostanze riferibili a magistrati che dovevano essere là in Procura, non potevano essere sostituti procuratori del passato. Alla domanda di indicare un magistrato che possa testimoniare questo stato di disagio, indica il dr. Chinnici.

Viaggiando sotto falso nome per ragioni di sicurezza Chinnici arriva a palazzo dei Marescialli il 25 febbraio 1982 e, davanti la prima commissione referente, conferma l’esistenza di un’azione giudiziaria e investigativa statica e sonnolenta, ricordando che, prima dell’avvento di Costa, gli omicidi erano di regola classificati a opera di ignoti mentre la polizia mandava i rapporti anche dopo un anno dal fatto. Il consigliere istruttore sostiene che Costa pagò con la vita l’adempimento del suo dovere di magistrato: per Chinnici la mancata volontà di convalida degli arresti da parte dei sostituti che sostenevano non vi fossero indizi sufficienti per gli arresti aveva ingenerato nei mafiosi la convinzione che sarebbero stati scarcerati in istruttoria (4). Chinnici segnala anche gravi superficialità di alcuni magistrati del suo ufficio («nel corso dell’istruzione avviata dal dottor Calabrese cominciarono ad emergere elementi probatori gravi […]. Ma il giudice Calabrese emette il mandato di cattura per indizi gravi e l’indomani scarcera i mafiosi per mancanza di indizi, mettendo alla berlina l’ufficio istruzione»). Dalle sue dichiarazioni emergono rilievi anche per alcuni pubblici ministeri, segnatamente Croce e Scozzari, quest’ultimo titolare di una notevolissima consistenza patrimoniale costituita da tre o quattro stabili nella zona alta della città che induce un consigliere a chiedere a Chinnici se fosse opportuna, a suo avviso, la permanenza del magistrato in Procura. Ma emergono anche ripetute e gravissime minacce nei suoi confronti, perché i mafiosi, a seguito della spaccatura in Procura, si aspettavano di essere scarcerati e, benché i mandati di cattura fossero stati emessi da Falcone, ne attribuivano la responsabilità a Chinnici perché amico di Costa (5).

Questa storia ha un’amara conclusione. Di Costa e Immordino si è già detto. Rocco Chinnici, il 29 luglio 1983, sarà vittima di un attentato dinamitardo e salterà in aria con gli uomini della scorta e il portiere del suo stabileFalcone e Borsellino e le loro scorte subiranno i noti plateali e crudeli attentati. Quelli che non credettero al risveglio possibile della giustizia o che in varia forma furono tacciati, se non di altro, di leggerezza (sia poliziotti che magistrati) fecero una brillante carriera che provocò lo sdegno di Michele Costa figlio del procuratore e di quant’altri credevano nel contrasto alla mafia. A rischiare di rimanere impigliato nelle maglie della giustizia disciplinare fu il solo Scozzari, che si sottrasse al giudizio presentando tempestive e (per lui) provvidenziali dimissioni dalla magistratura che bloccarono l’indagine iniziata dal Csm.

Note:

(1) Funzionario di provata esperienza dimostrata nelle province di Trapani e Reggio Calabria. In quest’ultima sede aveva assestato duri colpi alla ‘ndrangheta ed era stato artefice della cattura del terrorista neonazista Franco Freda autore di cruenti attentati e, in particolare, della strage di Piazza Fontana del 1969.

(2) Si tratta della ricostruzione del dott. Ippolito relatore dinanzi al CSM nel procedimento disciplinare nei confronti del dr. Schiacchitano e del dr. Gatto scaturito a seguito di interrogazione parlamentare presentata dall’on. Sciascia. I presenti, oltre al padrone di casa e a Scozzari, erano i dottori Aliquò, Pignatone e Lo Forte.

(3) Sono i dottori Gioacchino Agnello, Vittorio Aliquò, Luigi Croce, Girolamo Alberto Di Pisa, Vincenzo Geraci, Pietro Grasso, Giuseppe Pignatone, Giuseppe Prinzivalli, Giusto Sciacchitano, Francesco Scozzari, Domenico Signorino, Salvatore Virga e il procuratore aggiunto Gaetano Martorana.

(4) «Dove Costa venne allo scoperto – afferma Chinnici – fu quando, andando in contrario avviso dai sostituti, convalidò gli arresti del 5 maggio 1980. […] Dall’atteggiamento di rifiuto dei sostituti procuratori io riportai un’impressione estremamente penosa […]. Fu un fatto che mi preoccupò moltissimo, perché pensai [all’effetto] che questa pubblicizzazione di un fatto interno avrebbe potuto avere in una città difficile, pericolosa permeata di mafia in tutte le strutture, qual’è la città di Palermo. Io allora ebbi la sensazione che ci fosse stata una affermazione come per dire “noi non c’entriamo in tutta questa faccenda” […]. Io ho motivo di ritenere che Costa fu ucciso per aver compiuto quell’atto di giustizia». «Qui è doverosa una precisazione – aggiunge Chinnici, denunciando anche una strisciante disinformazione –. Si è detto che dei 55 arrestati, 20 furono prosciolti dal giudice Falcone. La notizia è inesatta, completamente inesatta. I prosciolti nella fase istruttoria furono sei o sette. […] Le condizioni per convalidare gli arresti, mi diceva Falcone, c’erano per tutti solo che, per una mezza dozzina, vennero meno durante l’istruzione».

(5) «Vi prego di tenere presente» – afferma Chinnici – «che a Palermo c’è una situazione di estremo disagio […] e le minacce non le ho avute solo io. Una domenica ho trepidato […] perché dall’Ucciardone era partito l’ordine di uccidere Borsellino […]. Una notte mi informano che la polizia americana aveva appreso che Falcone doveva essere ucciso in America […]. Anche se ho un buon sistema nervoso, non si può vivere in questo modo. Sono solo tre, […] se avessi 12-14 giudici potrei dividere i processi e, di conseguenza, si capisce che le responsabilità verrebbero diluite».

Mafie: una criminale potenza economica. Riflessioni in onore di Giuseppe Casarrubea

Da parte del Prof. Michelangelo Ingrassia, Docente di Storia dell’Università degli Studi di Palermo, riceviamo e con grande piacere pubblichiamo l’articolo dal titolo “Mafie: una criminale potenza economica. Riflessioni in onore di Giuseppe Casarrubea”.


Mafie: una criminale potenza economica

La cattura di Matteo Messina Denaro, così come già quelle di Salvatore Riina e Bernardo Provenzano, non ha provocato quel risveglio di coscienza civica sul tema della lotta alla mafia, necessario dopo oltre trent’anni di retorica revocatrice rivolta – parafrasando Leonardo Sciascia e il suo noto articolo sui professionisti dell’antimafia – contro “la mafia in sé” e raramente interrotta da studi e analisi capaci di investigare su “quel che si pensa la mafia sia e perché”. Nel dibattito pubblico ha invece fin qui prevalso l’interesse per il mafioso come soggetto tipologico, la polemica sulla durata della pena e la modalità di restrizione carceraria (dall’ergastolo ostativo al 41 bis), la controversia sull’eterno complottismo. Un dibattito dominato da un sensazionalismo e da un’enfasi mediatica (altrimenti detta pettegolezzo) che rendono impraticabili il rilancio del processo di crescita civile del valore dell’antimafia nell’opinione pubblica, la diffusione di una più forte e consapevole mobilitazione antimafiosa nella società, la destabilizzazione degli equilibri istituzionali e di potere economico e politico di cui pure la mafia si nutre di là da ogni possibile o improbabile trattativa. Rimane in ombra così, giunti nel Ventunesimo secolo, la questione di una ridefinizione della mafia, oggi più che mai da affrontare in opposizione al tentativo di semplificazione o banalizzazione del male da ritenere plausibilmente in corso.

È in questa prospettiva che qui si proverà a ricostruire una particolare interpretazione del fenomeno mafioso, considerato come fenomeno economico prima che politico e come pluriverso piuttosto che universo criminale (da qui il contrasto singolare/plurale che compare nel titolo). Un’interpretazione che si richiama alla categoria della borghesia mafiosa menzionata dal Procuratore della Repubblica Maurizio De Lucia e già elaborata negli anni Settanta del Novecento da Mario Mineo e Umberto Santino ma frettolosamente obliata dalla discussione politica e sbrigativamente liquidata perfino da taluni ambienti accademici come frutto tossico di vecchi ideologismi; esemplare il caso dello storico Salvatore Lupo, che etichetta come “suggestione” che “non aiuta nella necessaria distinzione tra i vari elementi costitutivi del network mafioso”, il concetto di borghesia mafiosa.

Naturalmente parlare di borghesia mafiosa non significa criminalizzare in blocco una classe sociale ma individuare soggetti e relazioni che dall’interno e dall’esterno di un sistema criminale operano in combutta nella realtà per specifici ed egoistici interessi e profitti.

Una e molteplice

L’elemento dominante nella storia della mafia è il mistero. Misteriosa è l’origine della parola: spagnola secondo alcuni studiosi, araba per altri. Misteriosa è la data di nascita dell’organizzazione, tanto che lo storico Pasquale Villari scrisse addirittura che la mafia si era originata per germinazione spontanea. Il mistero delle origini ha sedimentato nel tempo ambiguità, incertezze, equivoci che hanno reso complicate le indagini storiche sulla mafia. Sintomo di questa complessità è la definizione ambigua ed equivoca data della mafia da uno dei principali protagonisti della storia politica italiana: Vittorio Emanuele Orlando, il “Presidente della Vittoria” nella prima guerra mondiale, il quale in un comizio tenuto a Palermo in occasione delle elezioni amministrative del 1925 si dichiarò mafioso intendendo per mafia: “il senso dell’onore […] l’insofferenza contro ogni prepotenza […] la fedeltà alle amicizie”. Contrapponendo una definizione positiva della mafia a un’altra negativa, Orlando avallava l’esistenza di due diverse mafie: una buona, che esprimeva i sentimenti dell’anima siciliana; l’altra cattiva, che organizzava il malaffare e la malavita.

La dichiarazione di Orlando non deve sorprendere. Essa riflette una concezione consolidata in alcuni ambienti popolari e culturali. Luigi Capuana, per esempio, nel suo libro La città del sole, scriveva che della mafia criminale egli non aveva mai visto traccia; ancora oggi, in alcuni rioni e paesi dell’Isola, sopravvive l’idea di una mafia antica, giusta e buona, diversa dalla mafia nuova che uccide donne e bambini.

Questo stato confusionale deriva proprio dall’incertezza delle origini del fenomeno mafioso. Il mistero, l’ambiguità, la confusione che circondano la mafia hanno contribuito a renderla una forza invisibile e dunque indecifrabile. Nella bibliografia e nella cinematografia sulla mafia si confondono una mafia vecchia e una mafia nuova, una mafia di ieri e una mafia di oggi, una mafia borghese e una mafia proletaria, una mafia nel mondo delle imprese e una mafia nel mondo contadino, una mafia politica e una mafia impolitica. Così diventa un’ardua impresa scrivere o parlare di mafia, far capire la mafia nella sua essenza intima, far comprendere i reali processi storici che hanno fatto della mafia uno dei più inquietanti e radicati sistemi di potere del nostro tempo; si corre il rischio di cadere nei luoghi comuni o nella retorica che alla fine normalizzano tutto: anche una forza segreta e selvaggia come la mafia.

Forse il segreto della mafia non va ricercato nelle sue origini e neppure nelle sue cause. In questa situazione, soffermarsi sulla definizione storica di “mafia” è utile ma non più sufficiente. Non basta chiedersi “che cosa è la mafia”; è necessario trovare la risposta a un’altra domanda: a che cosa serve la mafia?

Lo scopo della mafia è di accumulare la ricchezza sottraendola con la prepotenza e con l’astuzia ad altri: alla collettività, allo Stato, alle famiglie, alle imprese; trasformando in fonte di ricchezza ciò che può essere nocivo alla comunità: le scorie tossiche, i rifiuti, la droga, le armi, la cementificazione. Per accumulare ricchezza è necessario controllare e dominare il territorio: la campagna, la città, il mercato.

Se la mafia serve ad accumulare le diverse forme della ricchezza e a dominare i diversi ambiti in cui si produce ricchezza ciò significa che essa è un sistema unico che però si articola in molteplici forme; così come la ricchezza è una ma prodotta da molteplici fattori.

La mafia, dunque, è un fenomeno sociale indissociabile dalla ricchezza. La sua formazione e i suoi sviluppi coincidono con le vicende di un potere ben identificato: il potere economico. Se ne deve dedurre che le diverse forme di accumulazione della ricchezza sono indissolubilmente legate alle diverse forme della mafia e viceversa. Ecco spiegato perché nel corso della storia si trovano diverse mafie che costituiscono tutte un unico e solo sistema criminale la cui ragion d’essere è nel potere economico e nelle sue cicliche trasformazioni.

Per storia della mafia si deve intendere, dunque, la storia delle mafie che rappresentano le molteplici maschere di un volto cinico e spietato: quello di una criminale potenza economica.

Le mafie in azione

L’esordio di questa criminale potenza economica avviene nelle campagne siciliane in un momento cruciale: quello del passaggio dal feudo al latifondo, che determina una timida modernizzazione dell’economia agricola. La mafia, in termini storici, scaturisce dalla dissolvenza della struttura feudale e dalla nascita di un’economia agraria connessa alla gestione del latifondo. Per tutto l’Ottocento il gabelloto e il campiere, che amministrano per conto del proprietario il latifondo, esercitano il dominio del territorio e accumulano un patrimonio personale di tutto rispetto entrando lentamente a far parte della borghesia agraria. Questa mafia agraria “alta” si espande nello stesso momento in cui si sviluppa una mafia “bassa” attraverso il mercato nero e lo sfruttamento dell’abigeato.

Naturalmente “alta” e “bassa” mafia agraria vedono nel movimento contadino che reclama il diritto alla terra, un nemico da abbattere. Con il conflitto scatenato contro gli esponenti del movimento sindacale agricolo, la mafia protegge l’aristocrazia agraria e tutela i propri interessi economici. Questa protezione consente alla mafia di relazionarsi con la stessa aristocrazia determinando così un’alleanza strategica tra mafiosi e aristocratici che assicurerà una stabilizzazione politica moderata e liberale. Tutto ciò favorisce il dominio del territorio e l’accumulazione di ricchezza.

Accumulazione e dominio che proseguiranno anche sotto il fascismo. Mussolini, infatti, colpirà la bassa mafia ma si assicurerà il consenso del ceto agrario latifondista all’interno del quale sopravviveva la borghesia mafiosa.

Nel secondo dopoguerra la mafia, che aveva avuto un ruolo determinante nel sostegno dello sbarco angloamericano e nella gestione dell’amministrazione alleata in Sicilia, si evolve all’ombra del mutamento economico. Negli anni Cinquanta e Sessanta del Novecento, il centro di gravità permanente dell’economia siciliana si sposta dalle campagne alle città attratto dall’affare della ricostruzione. Avviene sullo sfondo il passaggio dalla mafia di campagna alla mafia di città, che coincide con l’istituzione della Cassa per il Mezzogiorno che apriva ovunque a lucrosi intrecci di speculazioni private con elargizioni pubbliche. La borghesia agraria mafiosa può investire nella modernizzazione delle città e dominare il flusso finanziario della Cassa per il Mezzogiorno. L’espansione di Palermo, con la costruzione di nuovi quartieri e di moderni palazzi, è opera prevalentemente della mafia urbana. E tuttavia, accanto alla mafia di città, convive la mafia di campagna. Certo, con la riforma agraria e con la vittoria del movimento contadino scompare il latifondo. Ma la mafia non abbandona definitivamente le campagne. Essa, adesso, si collega alle modalità di produzione e di commercializzazione dei prodotti agricoli e alla mediazione tra i produttori e il mercato. Sono gli anni in cui il potere economico, per l’intreccio di investimenti privati e finanziamenti pubblici, infittisce le sue relazioni con il potere politico. La mafia, che in passato ha già avuto interlocutori di livello politico e che dopo la strage di Portella della Ginestra è diventata soggetto cardine dell’anticomunismo, come ha dimostrato Giuseppe Casarrubea con i suoi decisivi studi sul dramma storico del primo maggio 1947, stringe adesso i rapporti con il mondo della politica espandendosi come fiume in piena negli enti locali. Nel circuito politico locale, infatti, si svolgono numerose e fruttuose attività economiche senza grandi rischi e senza il bisogno di grandi capacità imprenditoriali. Le commesse pubbliche, gli appalti, la riscossione di tributi, sono giganteschi affari che la mafia non si lascia sfuggire.

Negli anni Settanta, Ottanta e Novanta del Novecento, la borghesia mafiosa accumula ricchezza sul fronte dell’impresa, dei lavori pubblici, dell’edilizia pubblica e privata e su quello dei nuovi traffici illegali. Il comparire della droga assicura ingenti finanziamenti che sono riciclati attraverso gli investimenti. Contemporaneamente si sviluppa l’estorsione attraverso il pizzo imposto all’imprenditoria, ai commercianti, a chiunque eserciti un’attività economica virtuosa.
Lo spaccio della droga e l’estorsione, oltre alla gigantesca accumulazione di denaro, offrono la possibilità di dominare sistematicamente il territorio.

Con questa ingente massa di denaro, la mafia si presenta all’appuntamento con l’ulteriore svolta del potere economico: quella della globalizzazione finanziaria.

Nel circuito finanziario globale gestito dai titani delle grandi multinazionali industriali e bancarie, sono investiti e riciclati i proventi della mafia. Negli anonimi consigli d’amministrazione di questi colossi finanziari non è facile distinguere il confine tra legalità e illegalità. Su questo punto si concentrano le ultime indagini di Giovanni Falcone e Paolo Borsellino e l’allarme lanciato a suo tempo da Giancarlo Caselli e Pietro Grasso.

Giuseppe Casarrubea e la borghesia mafiosa europea

Nell’Europa tramutata dalla globalizzazione si determina la composizione di una borghesia mafiosa secondo lo schema già collaudato in Italia. Lo spiega lo storico Giuseppe Casarrubea per il quale “la mafia, dopo il ’92 e il mutamento della geografia politica dell’Est europeo e del mondo, ha allargato i suoi orizzonti […] si è, da un lato, internazionalizzata e, dall’altro, capillarizzata socialmente”. Con il crollo del muro di Berlino e il dissolvimento dell’Unione Sovietica, la mafia, così come il capitalismo, revisiona le sue strategie politiche e sociali. Casarrubea indica nell’epicentro sismico del 1993 il momento cruciale di questo profondo ripensamento e adeguamento alla nuova carta geopolitica e geoeconomica dell’Europa. Egli osserva che “il capitalismo ha stravolto la faccia dei Paesi dell’Europa orientale, sperimentando forme di borghesia mafiosa in Ungheria, Albania, Croazia e in altri Paesi dell’ex Jugoslavia. E nella Russia”. Da qui muove l’espansione in grande stile della mafia nel vecchio continente; ed è, quella mafiosa dell’Est, una borghesia – scrive Casarrubea – connessa con gli Stati: “un fenomeno analogo è avvenuto in Italia, dove però la saldatura degli interessi tra Stato e Mafia è avvenuto in un percorso abbastanza lungo, risalente alle stesse origini della Repubblica”. Ancora una volta una sintesi di vecchio e nuovo, all’ombra del capitalismo che si rinnova.

La zona grigia e i colletti bianchi

La storia della mafia, una e molteplice, costituisce l’eredità più pesante trasmessa dal passato al nostro Paese nel nostro tempo. Un’eredità con cui bisogna fare i conti anche in questo Ventunesimo secolo. Nonostante tutto, quello della mafia è un problema ancora irrisolto, che va continuamente analizzato, studiato, contrastato, perseguito. Né va spenta la fiaccola del ricordo di ogni singola vittima della mafia: uomini, donne, bambini, imprenditori, intellettuali, politici, preti sindacalisti, servitori dello Stato, trucidati in agguati, attentati, stragi; nomi, date ed eventi luttuosi che rendono onore a una Sicilia e a un’Italia che non si è mai arresa e che inchiodano in una colonna infame gli spietati esecutori e i cinici mandanti di ogni delitto. La storia, però, non serve soltanto a ricordare e a celebrare i martiri e le loro eroiche battaglie e a condannare i carnefici. La comunità ha bisogno della storia per agire e lottare nel presente, per individuare il fronte sul quale combattere l’eterno nemico il quale ha la capacità gattopardesca e camaleontica di fingere di cambiare tutto senza cambiare nulla e di adattarsi al mutare dei tempi.

Bisogna prendere storicamente atto che c’è una logica economica nell’evoluzione e nella trasformazione della mafia, è la logica dell’accumulazione della ricchezza e del dominio dei mezzi di produzione della ricchezza, dalla terra al mercato azionario: la mafia di campagna nell’età del capitalismo agricolo, la mafia di città nell’età del capitalismo industriale, la mafia del mercato nell’età del capitalismo finanziario.

Rientra in questa logica economica di dominio e di accumulazione la necessità di allearsi con il potere politico; la necessità di spazzare via con la violenza tutti gli ostacoli sindacali, giudiziari e normativi; la necessità di controllare il territorio non soltanto con la paura e il terrore ma utilizzando anche la trasposizione dei codici culturali siciliani con il fine di creare una cultura parallela: appunto la cultura mafiosa. Dietro l’impressionante sequenza di misfatti e crimini mafiosi, dietro gli stretti legami tra mafia e politica, si nasconde l’arricchimento smodato dei cosiddetti “uomini d’onore” perseguito con il controllo sulle attività commerciali tramite il pizzo, con il controllo sugli appalti, con il controllo sui settori in espansione (dalle costruzioni alla finanza passando per la grande distribuzione e la logistica), con il contrabbando e la gestione dei traffici illegali. Non è un caso che la mafia abbia subìto dure sconfitte ogni volta che sono state colpite le sue attività economiche e finanziarie: dalla legge sulla riforma agraria alla legge sulla confisca dei beni mafiosi firmata da Pio La Torre e Virginio Rognoni; e già all’inizio degli anni Settanta del Novecento Mario Mineo, dirigente siciliano della Nuova Sinistra, aveva proposto un disegno di legge d’iniziativa popolare per l’espropriazione della proprietà mafiosa.

L’evoluzione della mafia riflette l’evoluzione del capitalismo. Le varie fasi del capitalismo fanno da sfondo alle diverse forme assunte dalla mafia. Accumulazione e dominio sono le caratteristiche storiche del capitalismo, l’arricchimento il suo fine, la conquista e il controllo del mercato il suo metodo; caratteristiche, fine e metodo che ritroviamo nel fenomeno della mafia. Il capitalismo, come la mafia, ha bisogno della sua politica e della sua cultura. Il capitalismo è insofferente verso le regole, la mafia le rifiuta, la politica liberista della deregolamentazione favorisce entrambi. Se il proprietario terriero di ieri lo ritroviamo oggi seduto nella comoda poltrona di un anonimo consiglio d’amministrazione di una multinazionale, il gabelloto di ieri indossa oggi un colletto bianco e inamidato.

Quali conseguenze dobbiamo trarre da questo parallelismo storico? È necessario aggiornare la visione e la conoscenza che abbiamo ancora oggi della mafia. Essa non è più rappresentata dal capomafia braccato che mangia cicoria. Certo, c’è anche questo. Ma non solo. Continua a restare nell’ombra quella “zona grigia” e dei colletti bianchi, dove opera silenziosamente la borghesia mafiosa di oggi. È necessario puntare lo sguardo e l’indignazione civile in quella direzione. Qui è opportuno restituire ancora una volta la parola a Giuseppe Casarrubea, che già nel 2012 scriveva: “per capire cosa è la mafia oggi dobbiamo pensare a Matteo Messina Denaro e al granitico blocco sociale che ha saputo costruire, elevando a dismisura la potenza criminale di Cosa Nostra e migliorando il suo già forte dominio degli apparati istituzionali e delle imprese economiche”.

Per sconfiggere definitivamente la mafia forse è necessario fare i conti una buona volta con il capitalismo.

Michelangelo Ingrassia


Riferimenti bibliografici

  • Alfio Caruso, Da cosa nasce cosa, Longanesi, Milano 2000
  • Giuseppe Casarrubea, L’ombra di Matteo Messina Denaro, in Antimafia Duemila, 14 maggio 2012
  • Mario Centorrino, L’economia mafiosa, Rubettino, Soveria Mannelli 1986
  • Marcello Cimino, La mafia come borghesia, in Segno, n. 10, 1980
  • Salvatore Lupo, Storia della mafia dalle origini ai nostri giorni, Donzelli, Roma 1996
  • Giuseppe Carlo Marino, Storia della mafia, Newton Compton, Roma 1997
  • Vito Mercadante, Storia ed antologia sulla mafia, Vaccaro, Caltanissetta 1984
  • Mario Mineo, Scritti sulla Sicilia, Flaccovio, Palermo 1995
  • Michele Pantaleone, Mafia e politica, Einaudi, Torino 1962
  • Umberto Santino, La borghesia mafiosa. Le relazioni di Cosa Nostra, Di Girolamo, Trapani 2023
  • Leonardo Sciascia, I professionisti dell’antimafia, in Corriere della Sera, 10 gennaio 1987

Argentina Altobelli

Il Centro Documentazione e Studi (Ce.Do.S.) “Gaetano Pensabene” ed il Patrimonio Documentario “Giuseppe Casarrubea” ricordano ai Lettori il prestigioso Seminario Studi organizzato dalla Cattedra di Storia Contemporanea del Corso di Laurea in Scienze dell’Educazione, Dipartimento di Scienze Psicologiche, Pedagogiche, dell’Esercizio Fisico e della Formazione (SPPEFF) dell’Università degli Studi di Palermo. Il Seminario avrà luogo martedì 29 novembre 2022 alle ore 16:00 presso la Sala Consiglio, piano 2, Edifico 15 del SPPEFF, Viale delle Scienze, Palermo.

Dopo i saluti Istituzionali del Prof. Gioacchino Lavanco, Direttore del Dipartimento SPPEFF, interverranno l’Avv. Antonino Pensabene, Presidente del Ce.Do.S., il Prof. Claudio Mancuso, Docente di Storia Contemporanea, Dipartimento SPPEFF, Università degli Studi di Palermo, il Dott. Sergio Prestanburgo, Direttore Territoriale INAIL Palermo – Trapani ed il Prof. Michelangelo Ingrassia, Docente di Storia Contemporanea, Dipartimento SPPEFF, Università degli Studi di Palermo

Ricorrendo l’ottantesimo anniversario della morte di Argentina Altobelli, prestigiosa Segretaria Generale della storica Federazione Nazionale dei Lavoratori della Terra, il seminario si propone di approfondire la storia delle Lotte Sociali in Italia nel passaggio dall’Ottocento al Novecento e il ruolo svolto da Argentina Altobelli da sindacalista e da componente del Consiglio Superiore del Lavoro e della Cassa Nazionale Infortuni; in particolare nella tutela obbligatoria contro gli infortuni nel settore agricolo, introdotta nell’Ordinamento Italiano con il Decreto Legge Luogotenenziale del 23 agosto 1917 n.1450 di cui ricorre, peraltro, il cinquantesimo anniversario.

Ciao Antonella

Antonella Azoti, figlia del noto sindacalista barbaramente assassinato a Baucina nel dicembre del 1946, ci ha recentemente lasciati. L’Archivio Storico “Giuseppe Casarrubea” e il Ce.Do.S. – Centro Documentazione e Studi “Gaetano Pensabene” porgono le più sentite condoglianze alla famiglia.

Pubblichiamo un breve e toccante ricordo scritto da Michelangelo Ingrassia, Direttore del Centro Documentazione e Studi “Gaetano Pensabene” e docente di Storia presso l’Università degli Studi di Palermo. A seguire, una video intervista curata dalla prestigiosa Fondazione Argentina Altobelli con una dichiarazione del suo Vice Presidente, Dott. Stefano Mantegazza.

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Antonella Azoti

Sulle ceneri di Antonella Azoti
Ricordo Antonella Azoti la sera in cui si inaugurò la sede del Centro Documentazione e Studi Gaetano Pensabene. Era presente anche Maurizio Casarrubea. Ricordo che, fermandoci a conversare, ci soffermammo sul fatto che Nicolò, il padre di Antonella, e Giuseppe, il nonno di Maurizio, erano stati entrambi falegnami, comunisti e sindacalisti e che entrambi, trucidati dalla mafia, avevano lasciato figli in tenera età. Figli che si erano poi arruolati in quell’esercito di insegnanti che, per Gesualdo Bufalino, avrebbero sconfitto la mafia. Convenimmo che non si trattava di coincidenze dovute al caso bensì alla volontà degli uomini e delle donne, perché non è per caso che si diventa mafiosi o sindacalisti e non è per caso che si sta dalla parte della giustizia sociale o dell’illegalità. Ed è sempre una questione di volontà studiare un fenomeno criminale come la mafia o praticare un uso pubblico della storia antimafiosa.
Nel ricordo di Giuseppe Casarrubea e sulle ceneri di Antonella Azoti penso che dobbiamo anche all’impegno di Antonella nell’uso pubblico della storia e alla ricerca storica di Giuseppe, lo storico della strage di Portella della Ginestra, la sconfitta culturale della mafia, che oggi non è più nella mentalità quotidiana e soprattutto nelle aule scolastiche e universitarie quella cosa siciliana che faceva anche cose buone, che non uccideva donne e bambini e che manteneva la quiete nei paesi e nei rioni della Sicilia. Motivo in più per essere degni del ricordo di Giuseppe Casarrubea e di Antonella Azoti, che ci ha lasciati domenica 16 gennaio.

Michelangelo Ingrassia

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Fondazione Argentina Altobelli

La Fondazione Argentina Altobelli pubblica una video-intervista ad Antonella Azoti

Il vice-presidente della Fondazione Stefano Mantegazza sottolinea come “Antonella è stata per la Fondazione e per tutta la Uila un importante punto di riferimento. Il suo coraggio, la sua forza e il suo entusiasmo ci hanno affascinato e contagiato. Abbiamo deciso di pubblicare questa intervista non solo per ricordarne la sua alta figura ma anche per proseguire nel lavoro di informazione che Antonella ha condotto fino all’ultimo”.

Nell’intervista, Antonella Azoti ripercorre la triste storia dell’assassinio del padre Nicolò, avvenuto per mano mafiosa quando lei aveva quattro anni; spiega i motivi e le modalità con cui si è svolta la strage ignorata di oltre 50 sindacalisti agricoli nel breve lasso di tempo tra il 1944 e il 1948; rivela la sua vicenda personale, la sua lunga sofferenza e poi, nel 1992, il “risveglio della memoria” che l’ha portata, nel corso degli anni, a raccontare a decine di migliaia di italiani, in particolare studenti, la storia di quegli anni bui e i valori della legalità e della democrazia.

 Il video è visibile al seguente link Intervista ad Antonella Azoti – Fondazione Argentina Altobelli

Centoventi anni fa la fondazione della Camera del Lavoro di Palermo

Riceviamo e con piacere pubblichiamo il seguente articolo del Prof. Michelangelo Ingrassia dell’Università degli Studi di Palermo

Auguri alla Camera del Lavoro di Palermo che compie centoventi anni. Fondata nello stesso anno in cui Giuseppe Pellizza da Volpedo terminò la sua celebre opera “Il quarto stato”, essa ha ispirato e scortato il cammino dei lavoratori palermitani dai conflitti di classe dell’età giolittiana ai conflitti d’interesse del secondo dopoguerra passando per le battaglie sociali e politiche contro il fascismo. Centoventi anni di storia in cui si coglie il riverbero dei grandi momenti biografici del sindacalismo italiano: l’epoca passionale e ideologica della Confederazione Generale del Lavoro (CGdL) e l’epoca razionale e pragmatica della Confederazione Generale Italiana del Lavoro (Cgil), che fu unitaria prima e plurale poi, con la costituzione nel 1950 di Cisl e Uil.

L’inaugurazione della Camera del Lavoro di Palermo avvenne il primo settembre 1901. È possibile rivederne ancora oggi i momenti principali attraverso la cronaca del giornale “Avanti!”, quotidiano del Partito Socialista Italiano, comparsa sull’edizione di lunedì 2 settembre 1901: la sfilata dei «diecimila operai con settanta gonfaloni in via Maqueda diretti al Politeama»; «lo spettacolo commovente, indimenticabile» dei socialisti che al passaggio del corteo gridano «viva la Camera del lavoro e gli operai di Palermo» e «i lavoratori di ogni arte che rispondono alle grida unanimi»; infine la cerimonia conclusiva: «più di ventimila persone sono affollate al Politeama. Massimo ordine. Presiede l’operaio Lombardo, che parla per primo meravigliosamente. Segue il Sindaco Tasca Lanza, applaudito. Accolto da grande ovazione, il compagno Garibaldi Bosco chiude, con un ispirato discorso, l’indimenticabile solennità. Questa sera avrà luogo un grande banchetto operaio».

Dieci anni prima, tra il 1891 e il 1893, altre manifestazioni simili si erano avute a Torino, Piacenza, Roma, Brescia, Firenze, Venezia, Padova e altre città ed era già stato celebrato il primo congresso nazionale delle Camere del Lavoro. Era stato Osvaldo Gnocchi-Viani a fondare in Italia, a Milano, la prima Camera del Lavoro. Nate a fianco delle Società Operaie di Mutuo Soccorso, che spesso aderivano a esse, le Camere del Lavoro studiavano le condizioni generali del lavoro, garantivano la tutela legale dei lavoratori, vigilavano sull’applicazione della legislazione sul lavoro femminile e minorile, servivano d’intermediaria tra l’offerta e la domanda di lavoro, rappresentavano presso le pubbliche amministrazioni i bisogni delle masse operaie e contadine. A queste funzioni iniziali si aggiunsero, dopo le furibonde lotte sociali di fine Ottocento, azioni di resistenza e compiti di sostegno alle mobilitazioni operaie, di direzione delle agitazioni operaie, di promozione della sindacalizzazione mentre si costituivano, proprio tra il 1901 e il 1906, le prime federazioni di categoria e si strutturava per la prima volta in Italia una vera e propria organizzazione sindacale. In quei primi anni del Novecento, dunque, e fino all’avvento del fascismo, aveva preso forma in Italia una vera e propria filiera sociale che schierava in rappresentanza e a sostegno dei lavoratori: Società Operaie, Camere del Lavoro, Sindacato e movimenti politici.

Anche in Sicilia e a Palermo la storia delle Camere del Lavoro seguirà queste tendenze ma con caratteristiche storiche e politiche specifiche e originali ispirate dal singolare contesto siciliano. Del resto, come ha scritto Antonio Gramsci, la Sicilia, dopo cinquant’anni di vita unitaria, dimostrava di avere vissuto una vita propria di carattere più nazionale che regionale. In questo senso la Camera del Lavoro di Palermo, e il Cameralismo siciliano, hanno caratteristiche proprie: a Palermo e in Sicilia le Camere del Lavoro nascono dalla fucina dei Fasci Siciliani dei Lavoratori, dalle lotte fascianti represse nel sangue, dalla visione sociale e politica, culturale ed economica di personalità come Rosario Garibaldi Bosco, Bernardino Verro, Nicola Barbato. È in questa fucina che si temprano le nuove generazioni che si pongono alla testa del movimento dei lavoratori, ben rappresentate da Giovanni Orcel nelle fabbriche e Nicolò Alongi nelle campagne; entrambi animatori della Camera del Lavoro di Palermo, impegnati teoricamente e praticamente a propugnare il conflitto. Altro ma non secondario elemento distintivo è che la Camera del Lavoro di Palermo, a differenza delle Camere del Lavoro d’Italia, deve fronteggiare non soltanto il padronato ma anche la mafia, volenterosa carnefice del padronato stesso. Il tragico destino di Orcel e Alongi è, anche in questo caso, emblematico.

Questi tratti storici specifici, tipicamente siciliani, della Camera del Lavoro di Palermo e del Cameralismo siciliano sono ben evidenziati dalla storiografia siciliana: i volumi di Renda, Marino, Ganci, Brancato; l’opera di Casarrubea e di Oddo; gli studi di Paternostro; le ricerche di Francesco Petrotta, curatore di una monografia intitolata «Cronache della fondazione della Camera del Lavoro di Palermo». La produzione editoriale stessa della Camera del Lavoro di Palermo è portatrice di una connotazione gramscianamente particolare: «Le condizioni dei lavoratori in un grande stabilimento industriale: il Cantiere Navale di Palermo» (1958); «La condizione operaia nell’industria palermitana» (1959); «Storia della Camera del Lavoro di Palermo: lotte operaie e contadine nel primo ventennio del secolo» (1981).

Dopo gli auguri, quale auspicio trarre dalla celebrazione di questi centoventi anni di storia, dato che il ricordo senza una prospettiva corre il rischio d’isterilirsi, come avvertiva Leonardo Sciascia, in una «cosa solennemente morta»?

La Camera del Lavoro fu fondata nel 1901, l’anno del primo autunno caldo, come l’ha definito Pippo Oddo in un suo recente saggio; il 1901 è anche l’anno di fondazione della Fiom e della Federterra, che a Palermo e in Sicilia portano il nome di Orcel e Alongi, i quali si battevano materialmente per unire in un fronte unico e unito operai e braccianti per dare una svolta e nuovo slancio vitale al conflitto sociale. Nell’odierna realtà, che vede ripiombare i lavoratori e le lavoratrici nelle condizioni di ceto subalterno, il lavoro in merce, con una legislazione sociale smantellata e i diritti sociali annichiliti, è tempo di rilanciare l’unitarietà nel conflitto: in ogni posto di lavoro, in ogni istituzione ove vi sia una rappresentanza di lavoratori, in ogni piazza. Non è a rischio solo l’eredità sociale del passato ma anche le poche conquiste del presente e il diritto a un futuro di giustizia sociale.

Michelangelo Ingrassia

Articolo pubblicato sul giornale online Esperonews (www.esperonews.it), 1 settembre 2021

Lo storico Mauro Canali a Palermo per ricerche archivistiche sul suo prossimo libro

Il Professor Mauro Canali, apprezzato autore di notevoli studi sul fascismo e sul delitto Matteotti, è a Palermo per visionare documenti d’archivio utili per il suo prossimo libro. Tra le carte consultate, alcune appartengono all’Archivio dello storico siciliano Giuseppe Casarrubea, conservato nella sede del Centro Documentazione e Studi Gaetano Pensabene, presieduto dall’avvocato Antonino Pensabene.

Ricordando De Mauro, giornalista scomparso e mai ritrovato
Mauro de Mauro

“Il Professor Canali sta conducendo ricerche su Mauro De Mauro e sulla sua attività  nella Repubblica fascista di Salò”, dice Michelangelo Ingrassia, Direttore del Centro Documentazione e Studi Gaetano Pensabene, che ha accolto lo studioso. “L’attivismo fascista di De Mauro – spiega Ingrassia – fu oggetto d’indagine storica anche di Giuseppe Casarrubea, che raccolse un’importante documentazione sulle azioni clandestine in Sicilia di elementi della famigerata Decima Mas di Borghese, cui De Mauro era legato non solo politicamente”.
Canali è stato accompagnato nella sede del Centro Studi Pensabene dal professor Maurizio Casarrubea, dell’Università  di Palermo, figlio dell’indimenticato storico siciliano.

Michelangelo Ingrassia

PREMIAZIONE DEL CONCORSO IN MEMORIA DI GIUSEPPE CASARRUBEA “Le nostre radici nella microstoria” a. s. 2020/21

Lunedì 7 giugno 2021 alle ore 9.30 dalla sede della scuola Privitera del comune di Partinico (PA), alla presenza del Prof. Maurizio Casarrubea figlio dello storico scomparso nel 2015 e in collegamento da remoto con tutti gli istituti partecipanti, avverrà la premiazione del concorso “Le nostre radici nella microstoria”. A partire dalle 9.30 l’evento sarà trasmesso in diretta dall’emittente Radio Amica. 

“Una strage ignorata”

Tratto dalla sezione News del sito della Fondazione Argentina Altobelli

Un  tour emozionante in Sicilia  Di Fabrizio De Pascale

Cinque proiezioni in quattro giorni, a Partinico, San Cipirello, Palermo, Sciacca e Castelvetrano. Un piccolo “tour de force” per la Fondazione Argentina Altobelli, in giro per la Sicilia a presentare il concorso “Portella, i braccianti, la memoria”, rivolto agli studenti degli istituti superiori siciliani e a proiettare il docu-film “Una strage ignorata” che ripercorre le tristi vicende di circa 50 braccianti e sindacalisti agricoli uccisi dalla mafia in Sicilia, negli anni 1944-48 perché lottavano per dare la terra ai contadini, così come previsto dalla legge. Ma, insieme agli istituti scolastici, il docu-film è stato proiettato anche nella sede di Libera a Palermo, in piazza Castelnuovo, in uno dei tanti beni (un esercizio commerciale) sequestrati alla mafia e affidati ad associazioni e cooperative. Complessivamente alle cinque proiezioni hanno assistito circa 800 persone, di cui 600 studenti. E il dato più significativo, comune a tutte le proiezioni, è stato il silenzio assoluto nel quale gli studenti hanno seguito lo svolgersi degli eventi raccontati nel docu-film. Un segno inequivocabile dell’attenzione e dell’interesse suscitati. Attenzione e interesse manifestati anche dai mass media, con numerosi articoli pubblicati dalla stampa locale e diversi servizi video trasmessi sia dalle TV locali che dal TG regionale della RAI. Insieme a studenti, insegnanti e dirigenti, tante le personalità incontrate, prime fra tutti i parenti delle vittime della strage ignorata, che sono stati anche i protagonisti del docu-film e che hanno parlato con gli studenti: Antonella Azoti, Francesco Lo Iacono, Placido Rizzotto, Nicolò Miraglia e Maurizio Casarrubea. E insieme a loro giriamo per le scuole insieme agli autori del libro “Una strage ignorata” Pierluigi Basile e Dino Paternostro e ai segretari territoriali della Uila, Caterina Provenza, Antonio Pensabene, Giuseppe La Bua, Gero Acquisto e Tommaso Macaddino. Ma andiamo con ordine. La prima proiezione si è svolta a Partinico, il 25 gennaio, presso l’Istituto Carlo Alberto Dalla Chiesa. E qui la prima sorpresa: l’evento è stato preceduto dalla performance di Bruno Bonadonna, marito della dirigente scolastica dell’Istituto Laura Giammona, che ha eseguito, accompagnandosi con la chitarra e un cartellone pieno di immagini, il “lamentu pi la morti di Turiddu Carnivali”, scritto da Ignazio Buttitta e musicato da Ciccio Busacca, un testo molto celebre in Sicilia che narra la storia di Salvatore Carnevale, bracciante e sindacalista socialista di Sciara (Pa) assassinato dalla mafia nel 1955. Tra il pubblico anche Pino Gagliano, Segretario della camera del lavoro di Partinico. Nel pomeriggio ci spostiamo a Palermo nella sede di Libera dove incontriamo altre vittime delle mafie e altre personalità ed esponenti della società civile. A fare gli onori di casa ci sono Lillo Gangi, coordinatore provinciale di Libera insieme a Chiara Cannella e Davide Mancuso in rappresentanza del centro Pio La Torre. Ma ci sono anche Augusta e Vincenzo Agostino, genitori di Antonino, agente di polizia ucciso insieme alla moglie Ida nel 1989 in circostanze ancora mai chiarite. Da allora, il padre Vincenzo non si taglia più né barba né capelli fin quando non si saprà chi e perché ha ucciso suo figlio. Incontriamo poi Maria Badalamenti, figlia di Silvio, a sua volte nipote di Don Tano Badalamenti, completamente estraneo alla mafia ma che venne ucciso nel 1984 per vendetta trasversale. Maria aveva allora 9 anni e la sua vita venne sconvolta. Non ha mai voluto lasciare la Sicilia e oggi ha scritto un libro “Sono nata Badalamenti” per raccontare la sua storia, vissuta in solitudine e schiacciata sotto il peso del suo nome. E sempre nella sede di Libera, incontriamo anche Pasquale Scimeca, regista del film Placido Rizzotto, Annamaria Nicosia, figlia di Mario testimone oculare della strage di Portella della Ginestra, protagonista del docu-film ma poi scomparso nel 2016; Isabella Giannola, amministratore giudiziario dei beni sequestrati al “gruppo Rappa” che ci chiede di poter trasmettere il docu-film su una rete televisiva, anch’essa sequestrata ai Rappa. Il giorno dopo ci spostiamo a San Cipirello, presso l’Istituto Basile dove, insieme alla dirigente Concetta Giannino, ci attende un gruppo di studenti molto preparati con i quali si sviluppa un confronto molto intenso. Il 30 gennaio siamo a Sciacca, presso l’Istituto Tommaso Fazzello, dove la proiezione è stata organizzata dalla scuola insieme alla Fondazione Accursio Miraglia. Qui, ad attenderci ci sono il sindaco di Sciacca Francesca Valenti e la dirigente scolastica Giovanna Pisano. Con noi c’è anche Nino Indelicato, presidente della Copagri di Agrigento. Ultima tappa a Castelvetrano, all’Istituto Cipolla. E anche qui un’altra sorpresa per chiudere in bellezza il nostro tour. Di fronte a un nutrito e qualificato pubblico, composto da oltre 200 studenti, i parenti delle vittime, i rappresentanti locali delle forze dell’ordine (Polizia, Carabinieri e Guardia di Finanza) e i segretari regionale e provinciale della Uil, Pietro Lodico ed Eugenio Tumbarello, la dirigente scolastica Gaetana Maria Barresi ha pensato bene di far osservare un minuto di silenzio in memoria delle vittime della “strage ignorata” e di chiamare un ex studente dell’istituto appassionato di musica, Giuseppe D’Alberti, che ha suonato, appunto “il silenzio” con la sua tromba… Un emozione fortissima per tutti consumata in un’aula magna bellissima arredata con grandi e significativi dipinti. Poi tutti in silenzio a vedere il docu-film…

Saggio di M.J. Cereghino

Riceviamo e rendiamo disponibile ai nostri Lettori il saggio “Portella della Ginestra, prova generale del doppio Stato”, scritto da Mario José Cereghino, e presentato in occasione del convegno “Portella della Ginestra. Alla radice del segreto italiano”. La giornata di studi, ideata e organizzata dall’associazione “Memoria e Futuro”, era dedicata allo storico Giuseppe Casarrubea (1946-2015) e si è svolta il 19 maggio 2017 ai Cantieri Culturali della Zisa, a Palermo. Il saggio viene ora presentato al Lettore nella sua versione integrale:

Leggi il saggio

Nota: tutti i contenuti del saggio sono di proprietà intellettuale dell’Autore M.J. Cereghino. Per informazioni contattare l’Autore al seguente indirizzo:

mariojosecereghino59[at]gmail.com