Riceviamo e pubblichiamo il seguente articolo del dott. S. Immordino, anche apparso sul sito www.volerelaluna.it, al link: https://volerelaluna.it/societa/2024/08/06/palermo-6-agosto-1980-lomicidio-annunciato-del-procuratore-gaetano-costa/ riguardante l’assassinio del Giudice Gaetano Costa, Procuratore Capo di Palermo.
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Il Procuratore camminava lento, curiosando tra le bancarelle, attratto da libri in mostra disordinata che, proprio per questo, attivano in un uomo di fine cultura il gusto della ricerca. Le ferie, per lui prossime, richiedevano una provvista robusta di letture per allentare la stanchezza e le tensioni di un lavoro appassionante, ma anche duro e rischioso. Si era avviato un processo di rinnovamento, attivato negli anni ’70 dal Partito Comunista ormai de-sovietizzato e dalla Democrazia Cristiana per portare l’Italia all’approdo di una democrazia compiuta. In questo contesto un’aria pulita cominciava a soffiare sul Paese generando nuovi fermenti che agitavano in positivo le acque torbide nella triste palude che era divenuta Palermo. Uomini coraggiosi come il Procuratore cultore di stand librari erano accorsi in difesa delle istituzioni da troppo tempo in mano a uomini assuefatti a una vita di pigra accondiscendenza o di complicità in torbidi connubi malavitosi. Tra questi solerti servitori dello Stato, Gaetano Costa (è di lui che stiamo parlando), partigiano in gioventù contro la dittatura fascista, si trasferì dalla sua Caltanissetta al palazzo di giustizia di Palermo per ricoprire il ruolo di procuratore capo e per intraprendere una nuova e non meno rischiosa resistenza.
A Palermo lo Stato sembrava volesse risvegliarsi da un lungo torpore istituzionale e aveva piazzato in ruoli chiave della magistratura uomini di grande caratura democratica: Costa procuratore della Repubblica, Rocco Chinnici a capo dell’Ufficio Istruzione del Tribunale (posto a cui non era riuscito ad approdare Cesare Terranova perché “preventivamente” ucciso dalla mafia), con grande scandalo dei benpensanti che urlavano all’instaurazione della “via giudiziaria al socialismo” quando, invece, si trattava di magistrati di estremo rigore professionale, protagonisti dell’affermazione di principi democratici scolpiti nella Costituzione. Costa opera una sterzata alle abitudini della Procura e inizia una lotta serrata all’alta mafia, con indagini che non si erano mai viste che puntano verso i sancta sanctorum della finanza e dei traffici di stupefacenti. Un’attività che gli aliena le simpatie di gran parte dei colleghi, assuefatti a ritmi e usanze che troviamo ben descritte con nomi, cognomi e dovizie di particolari nei diari di Chinnici, il quale, anche lui, sta operando un’analoga rivoluzione nell’Ufficio istruzione dove con felice intuizione, e non senza difficoltà, crea il pool antimafia.
Costa trova una sponda investigativa nel questore Vincenzo Immordino (1), inviato, pochi mesi prima del suo pensionamento, a dirigere la questura di Palermo, dove, a dargli il benvenuto, arriva l’omicidio del presidente della Regione Pier Santi Mattarella. Anche a seguito di questo gravissimo atto, in sintonia con i giudici Chinnici e Falcone, i riflettori investigativi vengono puntati sulle famiglie Gambino, Spatola e Inzerillo e su Gaetano Badalamenti, capomafia di elevatissima pericolosità e “padrone” dell’aeroporto di Punta Raisi. L’uccisione del capitano dei Carabinieri Emanuele Basile anticipa la conclusione della programmata operazione che scatta il 5 maggio 1980. Il questore Immordino segrega funzionari e poliziotti nella Caserma Lungaro, fa staccare i telefoni e ordina che nessuno per nessun motivo lasci il posto di raccolta. L’operazione si porta dietro uno strascico di malumori e polemiche. Per esempio il commissario capo Francesco Federico, oltre a lamentarsi perché non gli è stato neppure consentito di telefonare a casa per gravi motivi familiari, non sottoscrive il rapporto e, successivamente, dichiarerà a verbale di avere cercato di convincere il questore «a non far scattare l’operazione perché […] consideravo quegli arresti prematuri per mancanza di prove certe».
Di ben altra intensità le polemiche scoppiate al palazzo di giustizia. Nell’immediatezza degli arresti, cinque sostituti si riuniscono a casa di uno di loro, il dr. Sciacchitano, per «uno scambio di idee sull’opportunità di procedere alla convalida degli arresti effettuati poche ore prima dalla polizia giudiziaria» (2). Tra essi Francesco Scozzari su cui nel diario del dr. Chinnici leggiamo una lunga serie di appunti che tratteggiano un personaggio inquietante e addirittura indicato dal consigliere istruttore come possibile responsabile di una sua morte violenta. Saputo della riunione, Costa riunisce il 9 maggio nel suo ufficio tutti i sostituti «perché – secondo quanto riferito dalla vedova del magistrato, l’on. Rita Bartoli Costa – pensava che alcuni di essi fossero stati sottoposti a pressioni, segnatamente da parte del dott. Scozzari che aveva grande influenza sui colleghi».Nel corso della riunione i 12 sostituti e l’aggiunto presenti (3), ad eccezione del dott. Geraci, rifiutano di firmare gli ordini di cattura che saranno sottoscritti dal solo Procuratore capo. Un fatto senza precedenti in una Procura di prima linea nel contrasto alla mafia, che, quando si diffonde la notizia, determina all’esterno la sensazione di un isolamento del dr. Costa. Non si accerterà con sicurezza chi sparse la voce della presa di distanza dei sostituti, ma la vedova Costa addebita al dr. Sciacchitano la responsabilità di aver pronunciato davanti ai giornalisti la frase «li firma lui». Il successivo 29 maggio 1980 il questore Vincenzo Immordino viene collocato a riposo per raggiunti limiti di età. Gli succederà un questore iscritto alla P2, tessera n.102. Immordino subirà strumentali accuse giudiziarie da cui, dopo anni, verrà assolto con formula piena.
Poco più di due mesi dopo, il 6 agosto 1980, viene interrotta a colpi di calibro 7.65 la tranquilla passeggiata del procuratore Costa e con essa il risveglio della Procura palermitana. Rimane Rocco Chinnici, che crea il pool antimafia affiancando a Falcone i colleghi Peppino Di Lello, Paolo Borsellino e Leonardo Guarnotta. Si istruiscono processi, anche originati dall’operazione del 5 maggio voluta dal procuratore Costa e dal questore Immordino, che decimeranno il gotha mafioso, smentendo quanti, tra poliziotti e magistrati, erano stati scettici. Ma ancora una volta a duro prezzo: il diario di Chinnici è zeppo di annotazioni, riguardanti ora velati avvertimenti, ora pressanti tentativi di condizionamento o finanche di aperta ostilità provenienti dai vertici del palazzo di giustizia e dell’avvocatura.
I veleni tracimano nel palazzo di giustizia di Palermo per cui il Consiglio Superiore della Magistratura decide di vederci chiaro. Il 13 gennaio del 1982 convoca il dr. Vincenzo Immordino, che ricostruisce così quei giorni di faide e fronde tra investigatori e magistrati: «Quando mi si portò la notizia (della mancata firma dei sostituti, ndr) io rimasi colpito molto perché mi sembrò che crollasse quel principio che avevamo stabilito, di spersonalizzare. […] Il fatto che qualcuno dei procuratori ha detto che ha voluto firmare il Procuratore… noi NO non c’entriamo. Tutto questo mi impressionò non poco». Emerge, nell’audizione del questore, la preoccupazione per l’incolumità personale del procuratore a seguito di questo rifiuto di convalida degli arresti percepito all’esterno come fattore di isolamento. Alla domanda se lo scetticismo di alcuni investigatori della questura fosse riferito a magistrati, Immordino risponde secco: «Sì, alla Procura» e, alla domanda se il dubbio era generico, risponde «No, su fatti specifici» e cita una serie di circostanze riferibili a magistrati che dovevano essere là in Procura, non potevano essere sostituti procuratori del passato. Alla domanda di indicare un magistrato che possa testimoniare questo stato di disagio, indica il dr. Chinnici.
Viaggiando sotto falso nome per ragioni di sicurezza Chinnici arriva a palazzo dei Marescialli il 25 febbraio 1982 e, davanti la prima commissione referente, conferma l’esistenza di un’azione giudiziaria e investigativa statica e sonnolenta, ricordando che, prima dell’avvento di Costa, gli omicidi erano di regola classificati a opera di ignoti mentre la polizia mandava i rapporti anche dopo un anno dal fatto. Il consigliere istruttore sostiene che Costa pagò con la vita l’adempimento del suo dovere di magistrato: per Chinnici la mancata volontà di convalida degli arresti da parte dei sostituti che sostenevano non vi fossero indizi sufficienti per gli arresti aveva ingenerato nei mafiosi la convinzione che sarebbero stati scarcerati in istruttoria (4). Chinnici segnala anche gravi superficialità di alcuni magistrati del suo ufficio («nel corso dell’istruzione avviata dal dottor Calabrese cominciarono ad emergere elementi probatori gravi […]. Ma il giudice Calabrese emette il mandato di cattura per indizi gravi e l’indomani scarcera i mafiosi per mancanza di indizi, mettendo alla berlina l’ufficio istruzione»). Dalle sue dichiarazioni emergono rilievi anche per alcuni pubblici ministeri, segnatamente Croce e Scozzari, quest’ultimo titolare di una notevolissima consistenza patrimoniale costituita da tre o quattro stabili nella zona alta della città che induce un consigliere a chiedere a Chinnici se fosse opportuna, a suo avviso, la permanenza del magistrato in Procura. Ma emergono anche ripetute e gravissime minacce nei suoi confronti, perché i mafiosi, a seguito della spaccatura in Procura, si aspettavano di essere scarcerati e, benché i mandati di cattura fossero stati emessi da Falcone, ne attribuivano la responsabilità a Chinnici perché amico di Costa (5).
Questa storia ha un’amara conclusione. Di Costa e Immordino si è già detto. Rocco Chinnici, il 29 luglio 1983, sarà vittima di un attentato dinamitardo e salterà in aria con gli uomini della scorta e il portiere del suo stabile. Falcone e Borsellino e le loro scorte subiranno i noti plateali e crudeli attentati. Quelli che non credettero al risveglio possibile della giustizia o che in varia forma furono tacciati, se non di altro, di leggerezza (sia poliziotti che magistrati) fecero una brillante carriera che provocò lo sdegno di Michele Costa figlio del procuratore e di quant’altri credevano nel contrasto alla mafia. A rischiare di rimanere impigliato nelle maglie della giustizia disciplinare fu il solo Scozzari, che si sottrasse al giudizio presentando tempestive e (per lui) provvidenziali dimissioni dalla magistratura che bloccarono l’indagine iniziata dal Csm.
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Note:
(1) Funzionario di provata esperienza dimostrata nelle province di Trapani e Reggio Calabria. In quest’ultima sede aveva assestato duri colpi alla ‘ndrangheta ed era stato artefice della cattura del terrorista neonazista Franco Freda autore di cruenti attentati e, in particolare, della strage di Piazza Fontana del 1969.
(2) Si tratta della ricostruzione del dott. Ippolito relatore dinanzi al CSM nel procedimento disciplinare nei confronti del dr. Schiacchitano e del dr. Gatto scaturito a seguito di interrogazione parlamentare presentata dall’on. Sciascia. I presenti, oltre al padrone di casa e a Scozzari, erano i dottori Aliquò, Pignatone e Lo Forte.
(3) Sono i dottori Gioacchino Agnello, Vittorio Aliquò, Luigi Croce, Girolamo Alberto Di Pisa, Vincenzo Geraci, Pietro Grasso, Giuseppe Pignatone, Giuseppe Prinzivalli, Giusto Sciacchitano, Francesco Scozzari, Domenico Signorino, Salvatore Virga e il procuratore aggiunto Gaetano Martorana.
(4) «Dove Costa venne allo scoperto – afferma Chinnici – fu quando, andando in contrario avviso dai sostituti, convalidò gli arresti del 5 maggio 1980. […] Dall’atteggiamento di rifiuto dei sostituti procuratori io riportai un’impressione estremamente penosa […]. Fu un fatto che mi preoccupò moltissimo, perché pensai [all’effetto] che questa pubblicizzazione di un fatto interno avrebbe potuto avere in una città difficile, pericolosa permeata di mafia in tutte le strutture, qual’è la città di Palermo. Io allora ebbi la sensazione che ci fosse stata una affermazione come per dire “noi non c’entriamo in tutta questa faccenda” […]. Io ho motivo di ritenere che Costa fu ucciso per aver compiuto quell’atto di giustizia». «Qui è doverosa una precisazione – aggiunge Chinnici, denunciando anche una strisciante disinformazione –. Si è detto che dei 55 arrestati, 20 furono prosciolti dal giudice Falcone. La notizia è inesatta, completamente inesatta. I prosciolti nella fase istruttoria furono sei o sette. […] Le condizioni per convalidare gli arresti, mi diceva Falcone, c’erano per tutti solo che, per una mezza dozzina, vennero meno durante l’istruzione».
(5) «Vi prego di tenere presente» – afferma Chinnici – «che a Palermo c’è una situazione di estremo disagio […] e le minacce non le ho avute solo io. Una domenica ho trepidato […] perché dall’Ucciardone era partito l’ordine di uccidere Borsellino […]. Una notte mi informano che la polizia americana aveva appreso che Falcone doveva essere ucciso in America […]. Anche se ho un buon sistema nervoso, non si può vivere in questo modo. Sono solo tre, […] se avessi 12-14 giudici potrei dividere i processi e, di conseguenza, si capisce che le responsabilità verrebbero diluite».